domenica 26 ottobre 2014

Vienna for beginners (piccolo manuale di consigli per godersi la città al meglio)


Gironzolando una settimana per Vienna dietro a mio figlio - che ci abita da due anni - e quel moto perpetuo di mia moglie, ho avuto modo di capire un po’ meglio della prima volta che l’avevo visitata questa stupenda città e chi ci abita, dunque mi permetto di fornire qualche piccolo suggerimento che spero sia utile a chi non la conosce ancora o vuole tornare a vederla meno di fretta. Sehen Sie in Wien…

1. L’austriaco è molto preciso, non proprio come un tedesco, ma quasi. Se sul sito dell’albergo c’è scritto che le stanze sono rese disponibili dalle 14.00 e voi arrivate alle 9 di mattina, strillate, agitatevi o fate quel che volete, ma non avete speranza che s’impietosiscano e ve ne diano una. C’è scritto 14.00 e 14.00 sarà… non un minuto prima. Cosa farete per far passare le 5 ore che vi separano da una doccia calda e il letto è affar vostro, non del portiere. Tenetelo in conto quando organizzate il viaggio. 

2. Parcheggiare l’auto a Vienna costa come affittare un miniappartamento in San Babila o in Via del Corso. Dunque, aereo o treno, anche perché i viennesi guidano come schegge e se non si conosce la città si va in cerca di guai. A me è capitato di fare per tre volte il giro del Ring incastrato tra quattro file serrate di auto di gente che usciva dagli uffici senza riuscire a spostarmi di corsia. Perché puoi mettere tutte le frecce che vuoi, ma se non lo fai per tempo, nessun austriaco ti lascerà un millimetro di spazio per infilarti, anzi, serrano apposta, così impari ad essere ordinato. Per un guidatore "creativo" come noi che consideriamo il codice della strada alla stregua di una serie di consigli optional è leggermente frustrante. Questo vale anche per le precedenze. Se un austriaco ne ha diritto se la prende, costi quel che costi dal carrozziere. Dunque, non provateci a fare i bulletti "perché tanto frena". Non frenerà.

3. Se proprio non volete liberarvi del piacere della guida, attenti che a Vienna con il giallo le macchine inchiodano in attesa del rosso. Se accelerate per liberare l’incrocio come vi hanno insegnato, la tamponata è garantita. E anche lì non la prendono bene.

4. La prima cosa furba da fare appena si arriva a Vienna è entrare in metro e comperare un abbonamento settimanale o da tre giorni. Il settimanale costa una quindicina di euro (contro i 2 euro di una singola corsa), ma scoprirete presto che potendo prendere qualsiasi tram, metro sotterranea o di superficie, li ammortizzate in un giorno o due, anche perché la rete dei trasporti urbani è capillare, le corse sono a pochi minuti di attesa una dall'altra e per girare la città la metro è indispensabile. I percorsi delle diverse linee sono chiarissimi, trovi cartelli dappertutto e  ogni fermata è annunciata per tempo. Se uno riesce a sbagliarsi è davvero un fenomeno...attenti solo a non confondere la fermata di Schottentor con quella seguente di Schottenring, altrimenti sono duecento metri a piedi.

5. Sulle scale mobili della metropolitana occorre disporsi ordinatamente sul lato destro. Questo perché l’austriaco che ha fretta di prendere il treno le percorre di corsa sia in salita che in discesa e ha bisogno di spazio per farlo. Se ingombrate la corsia di sinistra della scala mobile qualche legge imperiale che non conosco conferisce all'austriaco il diritto di farvi volare via con una spinta come i birilli del bowling e senza nemmeno un “bitte…”. Dovremmo farlo anche noi con le comitive a passo d’uomo nelle calli veneziane.

6. Volendo girare Vienna e avendo le gambe buone, la città dispone di una rete di piste ciclabili vastissima e, soprattutto, con una card prepagata apposita e facilmente acquistabile si possono utilizzare delle biciclette pubbliche che si trovano dappertutto. Il trucco è che la bici è gratis se viene riportata in un qualsiasi parcheggio di scambio entro un'ora. Dopo quindi minuti (il tempo di una birra) il sistema si resetta e si può nuovamente prelevare la bici per un’altra ora gratis. Quindi con una decina di birre si può girare in bici per tutto il giorno a sbafo. Se invece preferite rimanere pedoni, attenti quando passate sulle piste ciclabili. Il ciclista austriaco se siete in mezzo alla pista riterrà suo diritto travolgervi in quanto violatori dell’ordine costituito. Dunque, occhio….

7. Nessun autista di tram ti aprirà mai la porta perché non è compito suo. Dunque è inutile sia sbracciarsi per chiamare la fermata (si fermano a prescindere) sia tirare manate furibonde sulla fiancata del tram per farsi aprire e gridare “ma vaffa…” quando il tram riparte senza averti preso a bordo. La porta te la devi aprire tu schiacciando l’apposito pulsante. E' piccolino, ma c'è...

8. L’austriaco è profondamente diverso dal tedesco, non solo per temperamento, capacità di socializzazione e sense of humour ma anche come lingua parlata. I viennesi spesso parlano tra loro in uno slang incomprensibile anche a Goethe e questo vale anche per la pronuncia di alcune parole che vengono troncate quasi all’americana, per cui Master diventa "Masta" e dunque se il cameriere o il portiere dell’albergo ad una vostra richiesta rispondono “Supa!” non offendetevi: vuol dire “Super!” e non “Suca!”. Pertanto non è il caso di rispondergli “a sòreta…”

9. Conoscere un minimo di tedesco basic è consigliabile. L’austriaco, come il tedesco, parte dal principio che “sei tu che sei venuto a visitare noi, quindi se non capisci una mazza è affar tuo..” . Dunque rassegnatevi… dai menu dei ristoranti agli annunci in metropolitana, tutto è espresso rigorosamente in tedesco, a parte le macchinette per acquistare i biglietti della metro, che hanno la versione in italiano. Ma in questo caso è abbastanza inutile perché molti italiani, visto che apparentemente nessuno controlla, tendono a viaggiare a sbafo (ma quando ti beccano, e ti beccano anche fuori dal mezzo perché arrivano in incognito e ti mostrano il tesserino quando non puoi scendere in corsa, sono 150 euro di multa). La conoscenza di un minimo di tedesco vi eviterà anche di dire a dei vostri amici ancora in albergo, come ho sentito fare da due connazionali, di raggiungervi in via Haltestelle. Non vi troverete mai perché quel che avete appena letto sulla pensilina del tram significa “fermata” e non è il nome della strada.

10. Se proprio volete essere gentili e snocciolare un po’ di tedesco sappiate che per chiedere il conto si dice “zahlen, bitte…” e non come ho sentito dire “zahn bitte…” altrimenti il cameriere vi mostrerà la dentatura e se ne andrà lasciandovi basiti. Vi mostrerà la dentatura anche se non lasciate la mancia... ma questo è un altro discorso.

11. A Vienna si può mangiare tanto e a buon prezzo ovunque a qualsiasi ora del giorno. Basta prendere il Tages menu (a volte i ristoranti ne propongono due o tre con prezzo diverso) e si è sicuri di mangiare bene e non ci sono sorprese con il conto anche perché in Austria non esiste il coperto. Se si va di fretta e si preferisce lo street food, nelle stazioni della metro ci sono fior di rosticcerie, kebabbari, hamburgherie e soprattutto Nord See che è una catena di negozi specializzati nel pesce che offre anche panini deliziosi con tonno, aringhe e altro. Comunque, nei ristoranti evitate di scegliere cibi fuori dal menu giornaliero per non farvi maledire dal cuoco e soprattutto di prendere il vino che è mediamente caro. Questo vale anche per il Kaiserschmarrn che bisogna provare una volta nella vita, ma che per essere fatto a regola d’arte richiede almeno 25-30 minuti e diverse passate tra padella e forno, quindi vi conviene ordinarlo subito anche se è un dolce…

12. Inutile inorridire: la zuppa (di cavolo, zucca o vegetali di stagione) come primo piatto in Austria è inevitabile e la salsina di mirtilli servita con la schnitzel fa impressione, però alla fine è ottima. Come tutta la cucina austriaca. Provate… 

13. Fare colazione in albergo o in pasticceria a Vienna costa una cifra, anche se prima o poi una fetta di torta da Aida o da Sacher va provata. Molto meglio entrare nelle tante panetterie che sfornano pani, strudel e focacce a ciclo continuo e che trovate aperte anche nelle stazioni della metro ad ogni ora. Anche il caffè è discreto, un po’ lungo, ma discreto…

14. Va bene che siete colti, ma John Steinbeck non è mai stato a Vienna e comunque la catena affollatissima di caffetterie americane che pullula in città si chiama Starbucks e quindi se, come un'amica al nostro ritorno, ci domandate: "Siete stati da Steinbeck?" magari non capiremo. Ad ogni modo, se proprio volete sostare in uno Starbucks (nulla di speciale a parte il brivido di dire ci sono stato), conservate lo scontrino perché nel caso di un'emergenza idrica improvvisa, contiene il codice da digitare sulla pulsantiera elettronica che dà accesso al bagno del locale. Se l'avete perso, o ve la tenete o vi prendete un altro caffè. Non c'è alternativa.

15. Entrare in una birreria e ordinare una Nastro Azzurro non è una buona idea. Ogni birreria produce con orgoglio la propria birra. Sarebbe come entrare in una concessionaria Volkswagen e chiedere una FIAT. Non capirebbero.

16. E’ inutile che poi scriviate recensioni indignate su Trip Advisor perché la direzione dell’albergo non vi ha consentito di fare incetta di panini, salumi e formaggio e di portarveli in camera. "Frühstück" significa prima colazione e non “Preparo il pranzo al sacco per tutta la comitiva”. Comunque, nella frenesia di riempirvi piatti, bicchieri e tazzine di ogni ben di dio, visto che li avete pagati, state attenti a non mettere una mestolata di yogurt nel caffè scambiandolo per panna di latte. Succede più spesso di quanto non si creda. Ad ogni modo, come ho detto in precedenza, fare colazione in albergo costa una cifra (tra i 15 e i 20 euro a persona) e quindi conviene prendere la camera senza colazione e poi farla come tutti i viennesi nelle panetterie (in quasi tutti i locali ci si può sedere al tavolo e alcuni offrono perfino un apposito menù a prezzo fisso della Frühstück) dove hai di tutto e di più, caffè compreso, i dolci e le brioches sono appena sfornate e paghi la metà.

Ah… sempre a proposito delle colazioni, non barate per farvi vedere viaggiatori esigenti e raffinati… lo sappiamo tutti che la vostra colazione tipo è un caffettino ingurgitato al volo nel bar sottocasa assieme ad una gommosa brioscina confezionata. Dunque è inutile scrivere per ritorsione, come ho appena letto del nostro albergo a firma di un tale Alberto di Milano, che una colazione con quattro tipi di marmellate, muesli, yogurt, pane, burro, miele, cioccolata, macedonia, salumi, formaggi, strudel e perfino wurstel, cetrioli e uova sode è “ridicolmente scarsa per un albergo a quattro stelle”. Alberto, per dirtela in milanese, vadaviaiciàpp, va

sabato 12 aprile 2014

Dell'importanza di chiamarsi Kevin e delle sorprese della vita


La signora con la felpa rosso lacca che faceva a pugni con i pantaloni della tuta rosa confetto era seduta su una panchina di piazzetta Santa Barbara per godersi il primo sole primaverile confabulando con le amiche in modalità “gossip senza ritegno” quando entrò improvvisamente in modalità: “madre agitata ma con tendenza al madre molto agitata” alzandosi di colpo e iniziando a sbracciarsi strillando: “Keeeevin, Keeeeevin….” . Tutto questo mentre passavo nei suoi pressi per la passeggiata pomeridiana con il quattro zampe peloso e facendo ululare il bretone che probabilmente aveva percepito alcuni ultrasuoni fuori dalla portata dell’orecchio umano, ma non del suo. Non mi ci volle molto a capire che il destinatario degli strilli era un bambinotto rubizzo e florido dai capelli a spazzola, che stava giocando a calcio con altri indemoniati sullo spiazzo in cemento del campo da basket e che, dopo aver reclamato a gran voce un rigore inesistente, al momento di batterlo era ruzzolato incespicando goffamente sul pallone mettendosi subito a piagnucolare immagino più per la figuraccia che per essersi ammaccato.

Un rigore calciato da Kevin è appena atterrato nel nostro giardino destando perplessità
Lasciato trascorrere il tempo necessario alla madre per portare i primi soccorsi con l'acqua ossigenata, il cerottino al ginocchio sbucciato e l'asciugatura delle lacrime, guardai meglio l'infortunato mentre riprendeva il gioco come se nulla fosse a conferma che era stata tutta una scena. Era un torello in formato XXL con la maglietta del Milan e una specie di codino multicolore sulla nuca alla Roberto Baggio, senza dubbio opera di un barbiere da segnalare al Tribunale dei minori. Valutandolo anche da un punto di vista tecnico (gli interisti sono tradizionalmente molto esigenti) notai che portava troppo la palla dribblando chiunque in “stile oratorio” e che doveva sentirsi molto bravo perché nessun altro bambino riusciva a contrastarlo o a spostarlo dal pallone, ma purtroppo per lui questo accadeva solo per via del baricentro basso e dei suoi lombi precocemente massicci. Così tanto pieni di polpa da farmi immaginare che o la madre in tuta rosa lo ingozzava di farinacei come l’oca per il foie gras, oppure che il pargolone facesse parte di quella sventurata generazione di ragazzini in dieta intensiva di Cipster e merendine al grasso idrogenato durante l’intervallo scolastico, dunque condannati alle profonde malinconie dell’età puberale per via dei brufoli incontenibili.

Quello che m’incuriosì, però, era quel nome inatteso da bimbo yankee e agguerrito di “Mamma ho perso l’aereo” e che qui da noi, terra di santi, poeti e navigatori, avevo sempre immaginato potesse essere affibbiato unicamente al figlio tamarro di Jessica e Ivano (cfr. Viaggi di nozze, di e con C. Verdone, M.& V.Cecchi Gori Production, Italia, 1995). 


Invece, ora avevo un vero Kevin davanti agli occhi, in carne (molta) e ossa. Che poi, esaminandone lombrosianamente la madre, per quanto ne sapevo il ragazzino poteva benissimo anche chiamarsi Chevin, come avevo appreso quando mia moglie Morena insegnava economia e tecnica bancaria ai giovani ragionieri della Riviera del Brenta. La sera del sabato, infatti, una volta sotto le lenzuola e come condizione ineludibile per l’espletamento (forse) di alcune mie velleità coniugali, l'elfa mi rifilava da correggere i compiti di economia aziendale dei suoi allievi in quanto, occupandomi di metodologie manageriali, ero ritenuto persona sufficientemente informata dei fatti. In tal modo, segnando a matita blu quello che mi pareva un erroraccio e dopo averle detto inorridito “ Meno male che questa per te sarebbe la migliore della classe. Non sa neppure scrivere il proprio nome… sostiene di chiamarsi Gessica come se fosse uno stucco per muri. Immagino che di cognome faccia Ducotone” avevo scoperto che tanta gente impone ai figli nomi stranieri perché fa tanto fino, ma non li sa neppure scrivere decentemente.

Non avete idea, infatti, di quante versioni di Samantha o Deborah abbia visto comparire sui compiti in classe di mia moglie, con quella “H” che andava e veniva irrequieta e secondo l’estro dei genitori. Per non parlare poi di tutti quei Cristian o Cristhian dei maschietti, che già è discutibile affibbiare una professione di fede ad un figlio che non può opporsi, impedendogli magari un domani di essere buddista o altro senza imbarazzo, ma almeno, se proprio lo volete fare, il nome scriveteglielo bene, che diamine! Basta informarsi. Che poi i nomi bisognerebbe anche poterli abbinare ai cognomi senza che gridino vendetta al cielo, che se uno si chiama Kevin e poi ha un cognome da profonda campagna veneta che non c’entra nulla, l’effetto tragicomico è garantito.

Per fortuna non siamo i soli a non aver dimestichezza con i nomi stranieri 

Comunque, il dubbio che Kevin potesse essere uno dei tanti ragazzini stranieri del quartiere svanì immediatamente appena la mamma riuscì ad avvicinare nuovamente il figlio vicino alla fontanella della piazza per un rapido scappellotto. “Keeeevin! Varda come ti te gà combinà, (termine irriferibile)… e poi no sta a bèvar l’acqua fredda che ti xe tuto suà e te vien la bronchite, porco de quel can!”. 
Quest’ultima frase indusse il bretone a protestare vivamente abbaiando.

Dunque, la madre di Kevin era di queste parti, sicuramente "nostrana" come si dice della soppressa trevigiana e con un accento vagamente di terraferma che ad un altezzoso veneziano del centro storico qual sono suonava assai “country” e localizzabile in un triangolo compreso tra le vicine località agresti di Robegano, Scorzè e Martellago. Inoltre, m’incuriosiva quella sua teoria medica originale secondo la quale un sorso di acqua fresca da una fontanella in una giornata primaverile avrebbe potuto scatenare una bronchite da ricovero. Io negli anni della scuola avevo giocato freneticamente a pallone con ogni tempo e in ogni stagione, rientrando a casa fradicio di sudore anche in pieno inverno e non mi ero beccato mai neppure un raffreddore, che in tempi di interrogazioni di greco e compiti di matematica mi avrebbe fatto assai comodo. Se solo avessi saputo che sarebbe bastato bere un sorso da una fontanella…

Anche il bretone mi guardò ridacchiando maliziosamente di quei due tamarri umani, poi, dopo avermi fatto capire che nel frattempo aveva annusato ogni centimetro quadrato di erba e che, francamente, avrebbe gradito alzare la gamba per marcare il territorio altrove, mi trascinò via impedendomi ogni altra considerazione malevola su Kevin e la sua mamma.

Due sere dopo, mentre ero in pizzeria con la mia elfa che nel frattempo era uscita in giardino a fumare, il tavolo da sei alle mie spalle venne occupato dall'ennesima famigliola berciante per il ben noto effetto euforizzante delle pizzerie, che fa sì che tutti parlino e ridano con un volume di voce superiore alla soglia del dolore acustico e all'emissione delle casse audio sul soffitto che pompano musica tamarra senza tregua. Essendo concentrato a sfogliare le diciotto pagine di pizze presenti sul menù rilegato in cuoio come un'enciclica papale ed essendo arrivato appena al capitolo terzo intitolato “pizze bianche” ed in attesa di affrontare quello ponderoso delle pizze “ai segni zodiacali” per vedere che cosa fosse riservato alla bilancia, sul momento non ci feci troppo caso fino a quando non mi giunse il suono di uno scappellotto seguito da un “Keeevin! Basta magnar i grissini, che poi no ti magni più la pizza…”.

Mi voltai eccitato. Erano proprio la madre e il figlio incontrati ai giardinetti, questa volta in compagnia del padre e di un'altra coppia abbastanza anonima, ma con una bimba che sembrava Heidi sponsorizzata dalla Lelly Kelly. La madre di Kevin smessa la tuta ora indossava una camicetta nera con disegno astratto a brillantini a forma di gabbiano in volo che per via del seno prosperoso e delle prossime festività poteva essere benissimo anche una colomba pasquale. In compenso ora mostrava sulle braccia scoperte un dettaglio che mi era sfuggito: un tatuaggio a bracciale intrecciato, in stile Hunziker o Canalis, ma sicuramente eseguito da un tatuatore in equilibrio precario sullo sgabello. Osservandola meglio notai che aveva anche un secondo tatuaggio tribale all'attaccatura del collo che però assomigliava ad un codice a barre del  CONAD, o forse lo era davvero. 

Kevin invece era infagottato dentro ad una maglietta rossoblu extralarge tipo giocatore di rugby con la scritta “Wild travel – one way ticket 2012” di cui mi sfuggiva il senso ma non che provenisse da una bancarella e che potesse far riferimento alla profezia dei Maya ormai trascorsa. Ascoltando cosa si dicessero capii che le due coppie si stavano raccontando delle vacanze estive e così ebbi modo di apprendere che la famiglia di Kevin era stata in giro sulla Costa Brava, località che venne quindi depennata all'istante dalle mie future mete di viaggio. Nel racconto veniva citata ripetutamente anche una gita a Valenza, ma immagino si trattasse di Valencia e non della ridente cittadina piemontese sulla riva destra del Po. Avendo sentito a suo tempo un collega insospettabile citare tra le delizie assaggiate durante un viaggio in Grecia la salsa "Suzuki" aspettai che i miei vicini giungessero alle forche caudine della descrizione dei piatti tipici spagnoli, ma purtroppo la paella mangiata nell'occasione venne pronunciata correttamente e senza l'attesa aggiunta della "d" togliendomi una parte del divertimento.

Ormai in estasi per il diletto che mi arrecava lo spettacolo di tanta truzzaggine, cercai di capire cosa stessero ordinando. Kevin prese, come sospettavo, una Maradona, cioè una di quelle pizze “omnicomprensive” che consentono al pizzaiolo di smaltire perfino i sottaceti e la Nutella e ai bimbi deperiti di mettere su qualche chilo solo con lo sguardo. La madre invece si orientò sulla margherita con la mozzarella di bufala d.o.c. “della campagna”, certamente migliore di quelle della città. Il padre di Kevin, un signore minuto con gli occhialetti e un principio di stempiatura invece non mi dava particolari soddisfazioni, anzi, mi deludeva abbastanza perché invece di chiamarsi Ridge o Denis come immaginavo era un normalissimo Roberto e aveva ordinato la mia stessa pizza.

Non vedevo l’ora che l'elfa Morena tornasse al tavolo per condividere con lei le mie malignità, ma quando finalmente rientrò in sala la vidi illuminarsi all'improvviso di un sorriso smagliante e puntare dritta al tavolo alle mie spalle. Quello di Kevin…

Quella che il padre di Kevin lavorava per lei a mia insaputa
 (come ormai è di moda qui in Italia)
Architetto carissimo, come sta? Ma che piacere vederla… come mai da queste parti?” e subito dopo una serie di festose presentazioni incrociate, mentre cercavo di farmi piccino al tavolo perché nessuno si ricordasse di me, arrivò inesorabile la frase che temevo: “Lei non conosce mio marito, vero? Carlo…vieni che ti presento l’architetto…" (omissis per la privacy).

Morale della favola: dopo una votazione a maggioranza con un solo voto contrario (indovinate di chi?) si decise di unire i tavoli per conoscerci meglio e dopo aver appreso che l’architetto in questione aveva firmato diversi lavori di mia moglie compreso il bar in centro dove andavo a prendere lo spritz, mi ritrovai seduto tra Kevin e la sua mamma a cercare inutilmente di trovare un argomento di conversazione che non fosse il Milan o George Clooney intanto che Morena discuteva di arredamenti e di possibili futuri progetti da sviluppare.

Alla fine della serata, mentre rientravamo a casa in macchina, dopo aver ammirato nel parcheggio della pizzeria il mastodontico SUV metallizzato del padre di Kevin, dissi all’elfa: “Senti… voglio almeno una soddisfazione morale. Dimmi che sono leghisti… lo sono vero? Ti prego... dimmi di sì!
I suoi occhi però saettarono un lampo di sdegno verso i miei. “Ma scherzi o è l'età che inizia a farsi sentire? Alle ultime elezioni comunali lui era in lista con il tuo partito. Non ti ricordi che gli hai dato anche la preferenza?”.

Non ci sono più i Kevin di una volta…



sabato 8 marzo 2014

Di quelli che si perdono nello spazio e prendono le stazioni spaziali al volo come l'autobus di Fantozzi

Proseguendo nei festeggiamenti per il genetliaco dell’elfa mia diletta consorte ieri sera, dopo una deliziosa cenetta a base di pesce, da nottambuli collaudati abbiamo deciso di tirare mezzanotte recandoci a vedere un film nel nuovo e centralissimo multisala con caffetterie, paninoteca, libreria e stordente moquette psichedelica da poco inaugurato in piazzetta Candiani, che per Mestre è come dire Piazza San Babila a Milano e che eravamo curiosi di vedere per la prima volta. Fin dal momento dell'antipasto di cozze e vongole saltate, come di consuetudine si è accesa tra me e l’elfa la tradizionale controversia sulla scelta del genere di film da scegliere. Infatti, in base al principio che trascorsi 40 anni nella visione di film socialmente impegnati, colti e politically correct e dopo esser stato perfino costretto (per amore) a vedere 4 volte, con grave rischio di orchite, Crìa cuervos di Carlos Saura in lingua originale, oltre alle giuste dosi di Fassbinder, Almodovar e Lars von Trier, ritengo di aver acquisito di fronte a certi film il diritto di dire “No, grazie, abbiamo già dato” . Pertanto, in mancanza di titoli migliori tra quelli in programmazione in questi giorni, le ho proposto due commediole rilassanti e leggere come Verdone o De Luigi, disposto ad accettare anche le delicate e introspettive mattonate di Ozpetek pur di venirle incontro, ma lei era irremovibile nell’esigere la macelleria cruenta in 3D tra greci e persiani di 300 - l’Alba di un impero e mi offriva come unica alternativa l’allegria contagiosa di 12 anni schiavo. Alla fine, giunti al caffè e al calice di ramandolo con i biscottini ebraici da inzupparci dentro, si è raggiunto il compromesso atteso con Gravity, il thriller fantascientifico spaziale appena presentato alla Mostra del cinema e di cui ora farò la mia personalissima recensione in 10 punti (liberissimi di non condividerla, obviously).

Questo è il trailer del film. Effetti speciali e fotografia sono da urlo,
 la trama invece...

Faccio una doverosa premessa: a mio parere chiunque abbia visto in gioventù 2001 Odissea nello spazio o il Solaris di Tarkovskij e subito dopo i tre episodi originali della saga di Star Wars (i tre successivi sono delle cover e valgono come gli Oasis rispetto ai Beatles: carini, ma non fanno la storia della musica) può dire di aver esaurito il genere fantascienza memorabile e rassegnarsi alla routine della banalità e del déjà vu. Al massimo ai film degni di memoria può aggiungere gli Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg e magari Capricorn One e Mars Attack, che però rispetto al genere classico sono dei border line come i due Man in Black e Avatar, che ha i suoi momenti di fascino, ma è la versione per adulti di Pocahontas. Tutto il resto prodotto da Hollywood in questi anni nel settore fantascienza è consistito quasi sempre in mastodontiche americanate con storie improbabili e perfino involontariamente comiche come quando in Indipendence Day per abbattere l’immensa astronave che sta distruggendo New York Jeff Goldblum le inocula un virus informatico in Ms-Dos utilizzando un portatile con Windows 98 e - s’immagina - connettendosi tramite una porta USB, notoriamente diffusa anche nella tecnologia aliena. Il tutto sotto gli occhi sgomenti dell’ extraterrestre che si rende conto troppo tardi di non aver aggiornato il Norton Antivirus. Premesso anche che qui di seguito dovrò fare necessariamente un po’ di spoiler sul film, ma tanto la trama e il finale sono talmente prevedibili che non vi svelerò nulla che possa sorprendervi, ecco alcune considerazioni sulle cose che ho notato in Gravity:

1- La fotografia e gli effetti speciali sono mozzafiato. Nella versione in 3D passerete metà del tempo a cercare di schivare sulla vostra poltrona detriti spaziali che vi vengono incontro come proiettili. Se la spettacolarità è quel che cercate in un film di fantascienza, allora qui siete a posto e vale ad abundantiam il prezzo del biglietto. 

2- Viste le situazioni che i due personaggi dovranno affrontare lungo tutto il film immagino che il titolo Gravity sia stato scelto solo perché Guida intergalattica per autostoppisti era già stato utilizzato in precedenza da altri. Tutto quello che accade nel film da quando i due protagonisti restano dispersi nello spazio è infatti cercare un passaggio verso qualsiasi cosa transiti dalle loro parti.

3- Ti aspetti che per un minimo tocco di humour (come quando in Trappola in alto mare, sulla corazzata Missouri conquistata dai terroristi Steven Seagal dice alla pin-up uscita dalla torta di essere un semplice cuoco e lei risponde “Mio dio, allora siamo fritti…”) al posto del classico “Houston, abbiamo un problema” uno dei personaggi dica per radio qualcosa tipo “Houston abbiamo un bel mucchio di problemi” o anche un più realistico “Houston, ma vaffanculo, va…” visto che poco prima gli avevano detto di non preoccuparsi dei detriti in arrivo, ma nulla di tutto ciò accade. Così come, dato l’elevatissimo numero di carambole e sponde tra ferramenta spaziali e relitti di stazioni orbitanti, ti aspetti che nei titoli di coda tra gli sponsor ci sia la Federazione Italiana Gioco Biliardo, ma non è così.

4- George Clooney gigioneggia in maniera insopportabile anche dentro una tuta spaziale e hai sempre l’impressione che da un momento all’altro stia per offrire alla Bullock un caffè espresso in cialda (what else?). Invece, poi le offrirà una vodka e immagino che il suo sponsor non ne sarà contento.

5- Pur trovandosi all'improvviso e drammaticamente soli a fluttuare persi nello spazio in una situazione in cui chiunque griderebbe di terrore, i due per molti minuti continuano a cazzeggiare chiacchierando tranquillamente delle loro cose come fossero a fare jogging ai giardinetti e consumando prezioso ossigeno senza motivo. Anche le ripetute domande di “Dove sei?”  ad una che sta roteando in un luogo come lo spazio dove è difficile dire se sei a destra o a sinistra ed in alto o in basso di qualcosa, lasciano perplessi così come il successivo “Dammi un punto di riferimento…” appena lei ritrova  un minimo di stabilità e che implicherebbe risposte del tipo “Sono all’incrocio tra la California e il Golfo del Messico”. La Bullock ti spiazza rispondendo “Sono qui.” . Che è ancora meglio in quanto a precisione e ti conferma che nel film interpreta un ingegnere.

Nel film le stazioni spaziali si afferrano al volo come l'autobus di Fantozzi

6- Le stazioni spaziali, da quel che si capisce, viaggiano tutte a vista sulla stessa orbita e intervallate da pochi minuti di distanza, come i treni della metropolitana. Dunque si può passare da quella americana a quella russa e da quella russa a quella cinese a patto di aggrapparsi al volo a qualche sporgenza, esattamente come Fantozzi quando decide di prendere l’autobus calandosi dal balcone perché è in ritardo.

7- Ogni volta che la Bullock riesce ad entrare in una stazione spaziale, per prima cosa si sfila velocemente la tuta e rimane in mutande e canottiera. Immagino sia per motivare il pubblico maschile a proseguire nella visione. A questo punto t’immagini anche che ci siano delle pantofole fluttuanti in assenza di gravità, ma non si vedono. In compenso ti chiedi come mai in una stazione spaziale semidistrutta ci sia ancora una temperatura tanto mite. Comunque, la scena in cui la Bullock appena rientrata nella stazione spaziale fluttua nell'aria in posizione fetale con i cavi dell’aria che sembrano il cordone ombelicale, è bella ed è un buon momento di cinema, anche se mi ha fatto subito venire in mente il videoclip di Teardrop dei Massive Attack.

La scena di lei che si mette in posizione fetale e fluttua senza gravità
 è molto bella, ma ricorda qualcosa

8- Nelle stazioni spaziali visitate la Bullock trova sempre accanto al sedile di pilotaggio un libretto d’istruzioni delle dimensioni di un terzo di quello della Panda. Immagino che sulla prima pagina ci sia scritto “Grazie per aver scelto la nostra stazione

9- Mentre la Bullock precipita tra fiamme e strilli a bordo del modulo di salvataggio verso la terra, considerando tutte le sfighe che ha collezionato sino a quel punto pensi che atterrerà come minimo in Afghanistan nel centro di un villaggio di talebani o in pieno Atlantico a 800 miglia dalla costa più vicina. Quando invece termina la corsa affondando nelle acque lacustri di un paesaggio vagamente asiatico e riesce ad uscire dal modulo, ovviamente in mutande e canottiera, ti aspetti il coccodrillo o l’anaconda. Ma a quel punto gli sceneggiatori dovevano essere esausti e non succede nulla.

10- Il film termina con una lunga inquadratura ravvicinata sulle cosce ancora ben tornite della Bullock e lì finalmente si coglie il disperato tentativo del regista di dare in extremis un po’ di concretezza ad un film francamente improbabile, ma ormai... ci sono già i titoli di coda ed è ora di andare a prendere la macchina nel parcheggio.

giovedì 13 febbraio 2014

L'intermezzo dello scrittore dubbioso


Ho già in mente a grandi linee (molto grandi) il prossimo post e potrei anche mettermi alla tastiera e pubblicarlo alla svelta in quanto grazie al mestiere che ho fatto e che ancora mi diverto a fare per gli amici di questo blog ho imparato da tempo a scrivere velocemente, giacché questa per un comunicatore è la condizione primaria per la sopravvivenza in azienda. Non tanto per la faccenda del leone e della gazzella che si svegliano alla mattina e dopo aver pensato: "Ma che due palle, però..."sanno che dovranno correre fino a sera per sopravvivere, quanto perché quando il Grande Capo Megagalattico si affaccia alla porta del tuo ufficio alle quattro del pomeriggio e ti chiede se puoi scrivergli venti cartelle su un certo tema per la mattina dopo che deve intervenire a un convegno a Roma, di solito l'alternativa è procedere immediatamente ad una ricca spremuta di meningi sperando che la Dea del déjà vu e dell'ovvietà ti sia ancora amica o ringraziare chi ha inventato il "copia e incolla" (che tanto i precedenti discorsi mica se li ricorda e la zuppa è sempre quella...). Altrimenti, nel caso di horror vacui davanti allo schermo o al foglio ancora bianco per sindrome da carenza creativa o di un soprassalto di orgoglio che ti induca a rammentargli che il tuo ruolo non è necessariamente quello di scriba del faraone è bene prendere in considerazione la prospettiva di avviare in un breve lasso di tempo una nuova attività con un ampio ventaglio di prospettive che andranno dallo scrivere necrologi, oroscopi, i cinema in città, le previsioni meteo e le cronache di cresime e comunioni per i bollettini parrocchiali oppure fare concorrenza a quello che lava i vetri al semaforo (sempre che accetti le regole del libero mercato). Dunque, appurato che so scrivere velocemente (bene o male, questo lo sapete voi) immagino vi starete domandando perché non lo faccia ancora.

Sembra tutto in ordine a Vienna, ma l'elfa noterà subito
 la ciabatta spaiata sotto alla finestra. Sono cavoli tuoi, figliolo...

In realtà temporeggio in quanto sono indeciso sul da farsi, dato che da qualche giorno sono di fronte ad una novità interessante che potenzialmente può scombinare tutti i miei piani editoriali. Infatti, l'elfa M.D.C.(mia diletta consorte) con una mossa di blitzkrieg da fare impallidire Rommel ha deciso di effettuare in anticipo la minacciata Ispezione Generale di Primavera all'appartamentino di mio figlio nel suo ostello universitario viennese. Pertanto aspetto comprensibilmente le prime cronache danubiane che si preannunciano gustose e mi hanno già regalato l'espressione di mia moglie quando dopo aver affidato al giovanotto l'incarico via Skype di trovarle un albergo vicino, confortevole e a buon prezzo (che lei è notoriamente di braccino corto) a prenotazione avvenuta e pagata si è sentita chiedere: "Mamma, ti crea problemi se l'albergo è nel quartiere a luci rosse?". Per questo ho già scommesso una birra con i miei amici su Facebook che la prima cosa che mia moglie farà entrando nell'appartamentino di mio figlio sarà quella di passare il dito sul primo mobile che incontrerà e dire "Va bene studiare, ma un minutino per togliere la polvere proprio non lo si trova, vero?". Mi piace vincere facile. 

Quelle che quando vengono a vivere con te ribaltano la tua casa da single
 e per prima cosa iniziano a sequestrare tutti i liquori, che fanno ingrassare...

Anche perché ricordo come fosse oggi il giorno in cui l'elfa M.D.C. affascinandomi con le sue arti seduttive prese possesso manu militari della mia minuscola casetta da single con vista sui tetti dell'Arsenale che a me pareva tanto linda e ordinata, ma a lei no. Di conseguenza mi fu subito chiaro come il suo proposito di ribaltarmela da cima a fondo non fosse una boutade ma andasse preso alla lettera. E siccome la forza del tornado elfico dopo alcuni raid nella sua stanza qui a casa e nella sua lontana dimora di Casorate (quando era in stage) è nota anche a lui, già vedo il mio erede impegnato in queste ore a strofinare affannosamente il lavabo del bagno con il Viakal o sento il suo grido affranto "No! il forno no!" mentre si avvinghia allo sportello come le casalinghe nei migliori caroselli. Così, per amor paterno e perché mi diverto a tenerlo sulle spine, lunedì sera, appena l'Euronight per Vienna ha preso il largo dalla stazione di Mestre, ho contattato l'erede confermandogli: 
A) che la madre era partita (e ora erano cavoli suoi)
B) che era convocato tassativamente per le ore 08.10 in punto alla Westbanhof
Inoltre, gli ho domandato, visto che per uno che si sta specializzando in logistica dovrebbe essere una banalità, quale programma avesse redatto per le giornate viennesi di sua madre, magari visualizzandomelo in un file di Excel sotto forma di diagramma di Gantt. Quindi l'ho lasciato snocciolare tutta una serie di edificanti e ben congegnate visite a musei, palazzi imperiali e chiese varie, ivi comprese un paio di birrerie storiche, la degustazione della vera Sachertorte e una passeggiata per le vie dello shopping elegante (questa messa non a caso nella speranza che ci scappi il paio di jeans per lui). Tutto questo prima di annunciargli: "Scusa... ma tu lo sai che la mamma vuole ballare tango, vero?" di godermi il suo atteso: "Cooosa? Stai scherzando, spero..." e di replicargli "No, affatto... si è messa un paio di scarpe in valigia e anche un abito da sera. Vedi tu...". Purtroppo è stato un vero peccato che non fosse collegato con la webcam perché mi sono perso il suo pallore improvviso.


Così, nell'attesa di conoscere l'esito della visita ispettiva, i racconti delle parti in causa e di decidere se ne valga la pena di scriverci sopra, ho pensato di ripostare una mia intervista dello scorso anno su 7 Gold nella quale parlo dei miei gialli e che ormai non è più disponibile sul sito dell'emittente. Prendetela non tanto come una marchetta pubblicitaria (anche se ne ha tutta l'aria), ma come l'intermezzo dello scrittore in attesa. Buona visione...

mercoledì 22 gennaio 2014

Dei figli giramondo, degli ospiti stranieri in cucina e delle sfogline ceke


Ormai diversi anni fa durante una cena mi venne l’incauta idea di raccontare a dei nostri amici di come a mio parere il modo migliore di svezzare definitivamente un figlio ormai quasi alla fine dell’adolescenza evitando di ritrovarsi poi per casa dei mammoni incapaci anche di fare una raccomandata alle poste, fosse quello di adottare lo stesso sistema che mia madre, adorabile quanto stravagante artista bohémienne ma molto avanti rispetto ai suoi tempi, aveva usato con me per farmi crescere dopo la perdita improvvisa di mio padre. Questo consisteva nel superare legittime ansie e paure e responsabilizzare i figli lasciandoli vivere in progressiva autonomia (ma controllata con discrezione e con la regola del tre sbagli e sei fuori) le loro esperienze esistenziali, meglio se all'estero, perché tanto oggi con Intercultura e organizzazioni simili ci sono opportunità per tutte le borse. Infatti, non c’è nulla di meglio per un ragazzo che metterlo in condizione di gestirsi da solo e doversi sfidare quotidianamente con lingua, usi e culture diverse per svegliarsi rapidamente e diventare adulto. Questa tesi la proposi incautamente, non tanto perché incrociai subito lo sguardo estasiato dell’elfa che sapeva da: “Mi devo essere persa qualcosa. Quand'è che tu saresti diventato adulto?” quanto perché avevo dimenticato che a tavola con noi ad ascoltare quella proclamazione d’intenti c’erano anche le orecchie interessatissime di un quasi diciassettenne. Così, puntuale come una cambiale in scadenza solo una settimana dopo mi arrivò un “Papà, mi sono informato su internet e durante l’estate ci sarebbe la possibilità di uno scambio di studio all'estero praticamente a costo zero. Tu hai detto che mi farebbe bene, pertanto lo posso fare, vero?” 
Beh… sì. Certo che lo puoi fare, non mi rimangio quello che ho detto e poi tanto sei in vacanza.
Quindi è confermato? Non è che poi cambi idea?
Ti ho detto di sì, sono una persona di parola perciò stai tranquillo. Allora… dove vorresti andare? Spagna? Inghilterra? Francia?” 
Gli occhi del giovanotto s’illuminarono di uno degli sguardi maligni di sua madre “No, Australia…”.

Nostro figlio nel suo periodo Australiano. Quando sua madre vide questa foto
 la definì :  il pasto dell'Australopithecus Venetianus

Così all'inizio fu Oliver detto “Ollie”, il coetaneo australiano di Melbourne che ricevemmo in scambio quando mio figlio iniziò la sua prima avventura di giramondo transoceanico. “Ollie”, a cui sono affezionato come fosse un secondo figlio, arrivò a casa nostra un giorno di giugno guardandosi attorno con l’aria diffidente di un Alec Guinnes, ufficiale di Sua Maestà britannica con il frustino da cavallo sotto il braccio e in visita alle colonie remote dell’Impero. Tranquillizzato nelle sue inquietudini su quelle terre e tribù sconosciute grazie alla cucina italiana di cui si rivelò subito un entusiasta e vorace ammiratore (gli inglesi insinuano maligni che il vocabolario australiano sia composto solo dalla lettera B e tre parole: Beer, Beefsteack, Barbecue e dunque nessuna meraviglia di ciò) dopo cena gli consegnammo la stanza di nostro figlio e andammo tutti a dormire. Verso le due di notte iniziai a sognare Jimmy Page che partiva con l’assolo di Heartbreaker che però dopo qualche minuto diventò Smoke in the water e lì il sogno non mi tornava più perché quello era un pezzo dei Deep Purple. Quando la musica virò ancora su Back in Black degli AC/DC realizzai finalmente che si trattava dell’ospite australiano. Infatti, lo trovai seduto in pigiama sul letto con la mia Fender che aveva scovato dentro l’armadio e un sorriso compiaciuto al mio apparire “Nice guitar! It’s yours?”. A fargli compagnia c’erano un paio di lattine di Nastro Azzurro scovate in frigorifero. Così realizzai di avere in casa un eccellente chitarrista in preda al jet lag e che era il caso di nascondere meglio le scorte di birra.

Oliver oggi è un brillante jazzista e ha appena inciso il suo primo album "Survival"
che raccoglie suoni e atmosfere di oltre un mese di viaggio attraversando l' Australia

Nei giorni seguenti ci furono altre curiose scoperte reciproche: lui inorridì guardandoci come aborigeni quando seppe che qui si mangiava la carne di cavallo (Are u kidding me? You eat horses? Really?) ma poi volle imparare a tutti i costi a preparare lo spritz e la carbonara. A nostra volta, scoprendo il numero di barattoli che si era portato dietro, apprendemmo che nessun Aussie poteva concepire una colazione senza il Vegemite, che sarebbe l’estratto di verdura Liebig che qui si usa per il brodo mentre dall'altra parte del mondo lo spalmano sul pane tostato e imburrato e che per loro è normale chiedere se puoi fargli una “pasta pommidoro and basillico, please” alle cinque del pomeriggio, come fosse la merenda. Al termine del suo lungo soggiorno presso di noi Ollie, che ormai oltre ad un italiano più che accettabile aveva imparato anche diverse espressioni dialettali veneziane alcune delle quali irriferibili, volle ricompensarci preparandoci un dolce caratteristico: una Pavlova (una sorta di meringata) alle fragole e panna. Ancora oggi, grazie alla sua inesperienza nello scegliere il contenitore più adatto a montare a neve con il frullatore le chiare di 12 uova troviamo tracce di albume in varie zone della cucina.

Katerina mentre scopre con moderato entusiasmo
 la cucina  di pesce veneziana e il fritto misto dell'Adriatico
 (anche il prosecco).

Così ebbe inizio questa usanza simpatica degli ospiti di mio figlio (che ha l’invito facile e non considera che abitando noi a Venezia e non a Cavarzere o Trebaseleghe, qui arrivano tutti di corsa) di cucinare per noi i propri piatti tradizionali per mostrarci gratitudine e ricambiare l’ospitalità. La faccenda diventò nel tempo una tradizione a volte gradevole, altre da accogliere con il sorriso sulle labbra e la morte nel cuore, come per quella sua amica belga che ci mise in tavola un qualcosa che ancora oggi è oggetto di discussione in famiglia per capire cosa fosse.

Il ritorno dall'Australia di nostro figlio ci restituì come previsto un adulto ormai in grado di sbrigarsela da solo in mille faccende e la convinzione che il bisogno di esperienze estere e avventurose dell’erede fosse finalmente sedato, invece questo ripartì in automatico poco tempo dopo appena gli fu possibile andare in Erasmus scegliendo questa volta i 30 gradi sottozero dell’inverno lituano tanto per non farci stare in ansia. Da Vilnius rientrò alla base sei mesi dopo avendo imparato definitivamente a farsi il bucato a mano nel lavandino (ma davvero occorre risciacquare?) ad appenderlo sgocciolante sopra il letto del suo compagno di stanza, a stirare e a cucinare, tanto che negli ultimi mesi, essendo di indole ingegnosa, per arrotondare l’assegno mensile (sua madre è notoriamente di braccino corto) dava lezioni di ragù, risotto e lasagne ai suoi colleghi di ostello in cambio di una spesa gratuita al supermercato.


Un vero professional si nota dalla cura dei dettagli.
Tutto in tinta: cucina, maglietta, confezione di farina e ciotola delle uova...
(Gordon Ramsay is a loser...)

Una sera la nostra telefonata quotidiana con Skype venne interrotta perché era entrato qualcuno in stanza a chiedergli se poteva risolvergli un problema urgente e io pensai compiaciuto che fosse una questione di studio, invece si trattava dell’indonesiano del piano di sopra che non capiva come cuocere una piadina. Soprattutto nostro figlio rientrò da Vilnius con una nuova ragazza conosciuta in università: Katerina, una graziosa studentessa (ormai dottoressa) di Brno con la quale sta assieme già da tre anni e che è entrata a pieno titolo nella nostra casa e nelle simpatie mie (ma qui ci vuole poco) e di mia moglie (che con le madri è sempre più difficile). Questo anche se il livello di conoscenza dell'inglese dell'elfa è decisamente "cheap" perché pur avendo soggiornato alcuni mesi da ragazza per una full immersion presso dei suoi cugini che vivono a Newcastle era rientrata alla base solo con un forte accento padovano essendo questi suoi parenti di Monselice.

Di Katerina  ho già parlato in qualche post precedente e non mi ripeterò se non per dire che ospitandola periodicamente per alcune settimane anche per lei è iniziato inevitabilmente lo stesso percorso di italianizzazione di Ollie con la differenza che mentre questi, come tutti gli Aussie, si sentiva sostanzialmente un inglese abbandonato da secoli su un continente sperduto in mezzo all'oceano Pacifico e circondato da gente con gli occhi a mandorla, dunque era entusiasta di qualsiasi cosa provenisse dalla madre Europa (tanto più dall’Italia), lei, essendo di formazione sostanzialmente asburgica e quindi molto rigorosa, logica (non a caso sta con un logistico) e schematica, tendeva a diffidare istintivamente di tutto quel che è latino e mediterraneo, dunque approssimativo e casinista, confutandolo con quel suo “in Czech Republic…” che sapeva di cortese riprovazione o di stupore di fronte a stranezze che non comprendeva, come quando davanti al banco della gastronomia di Auchan ci chiese perché avessimo bisogno di tanta varietà di formaggi, quando ne bastavano due o tre tipi. Bastò una cena basata su assaggi di burrate, grana, scamorze, gorgonzola, taleggi e ricotte affumicate per risponderle e trasformarla in una buongustaia entusiasta.

Johann-Markus Von Lebel, comandante dell'U-331
mostra orgoglioso l'impasto creato dalle sue vigorose mani
e a suon di imprecazioni in varie lingue

Anche Katerina, come tutti gli ospiti stranieri a casa nostra non si è sottratta alla tradizione di cucinare per noi, ma in questo caso, essendo lei una cuoca notevole ed amando noi la cucina mitteleuropea, dopo il suo primo e superbo gulasch con i knedliky la cosa è stata subito accolta e incoraggiata. La ragazza è anche piuttosto pragmatica nelle sue scelte e ai regalini tipo profumi, creme per il viso e sciarpine che di solito i genitori fanno alle ragazze dei figli per Natale ci ha fatto sapere tramite il  nostro beneamato che preferiva cose utili. Così, dopo la Moka Bialetti dello scorso anno, questo Natale è arrivata la richiesta più inquietante: la macchina per tirare la sfoglia. Inquietante perché siamo stati subito informati che il suo desiderio, per farci vedere i progressi nell'italianizzazione, era di collaudarla immediatamente in loco e prepararci le tagliatelle fatte in casa, come una vera sfoglina bolognese. Ora, essendo lei una debuttante totale nell'arte di impastare, la faccenda presentava molti punti oscuri, anche perché mio figlio, subito precettato come aiuto di cucina, pur proclamandosi grande cuoco di lasagne (dice che quando è ospite da lei tutta la famiglia gliele richiede pressantemente, cane compreso) in realtà compera quelle della Barilla e sembrava non avere idea di come si realizzasse una fontana con la farina e di come iniziare a lavorare le uova al suo interno e non sul pavimento della cucina avendo rotto gli argini.

Le tagliatelle stese ad arieggiarsi e qualcuno che guarda interessato la novità

Il gran giorno delle tagliatelle, prima di obbedire all'elfa e al suo imperioso "lasciali soli, che si divertano tra loro a fare la pasta" siccome la ragazza è molto orgogliosa e indipendente e mio figlio mi raccomanda sempre di non fare il padre italiano protettivo e premuroso, che da loro non si usa, mi sono limitato a ricordarle la faccenda dell’uovo ogni cento grammi di farina (che naturalmente già lo sapeva, perché prima di fare una cosa si informa e studia, mica come noi latini che improvvisiamo) e soprattutto a confutare la sua certezza, acquisita da non so quale loro (dunque sacra) trasmissione di cucina, che nell'impasto delle tagliatelle ci andasse una robusta dose di lievito di birra. Volevo almeno evitare che trattando l’impasto delle tagliatelle come quello di un panettone si ripetesse il drammatico quanto lontano ricordo di quando condividevo un appartamentino per studenti a Padova con quel simpatico fancazzista che (l'ho raccontato in un post precedente) già ci aveva reso celebri in tutto l’ambito universitario patavino come i due che si erano mangiati il “poulet à la merde”, giacché ignorava che al suo pollo ruspante al barolo occorreva togliere le interiora (e per giustificarsi osò pronunciare la celebre frase “sono iscritto a giurisprudenza, mica a veterinaria”). Quella volta, invece, avendo invitato a pranzo la mia ragazza dell’epoca e una sua amica su cui lui voleva fare colpo, aveva deciso di propinare loro un risotto alla salsiccia al “modo di casa sua”, che poi altro non era che una quantità invereconda di salsiccia sminuzzata e rosolata a parte con aglio e rosmarino, da accoppiare a fine cottura con del normale riso bollito spacciato per Pilaf. L’errore lo avevo commesso lasciandolo solo, visto che erano arrivate le ospiti, nel momento di fare le dosi. Infatti, il nostro cuoco, non avendo la più pallida idea di quanto ne servisse a persona, ma essendo di indole ingegnosa, aveva preso dalla tavola i nostri quattro piatti fondi e verificato che versando tutta la confezione questi si riempivano appena, non volendo che le ospiti rimanessero a corto di riso per un eventuale bis, aveva aperto una seconda scatola e ne aveva aggiunto una buona metà. Quindi, gettato quel chilo e mezzo di Arborio nell’acqua bollente, ci raggiunse in salotto per unirsi all’aperitivo e dopo 10 minuti di cottura anche il riso, forse sentendosi escluso, decise di uscire dalla pentola e di venirci incontro lungo il corridoio.

La prima tagliatella fatta in casa non si scorda mai...

In ogni caso, chiusa alla mie spalle la porta della cucina e lasciato dentro il bretone, a suo rischio e pericolo d'infarinatura, mi ritirai  in salotto a leggere quel "In difesa delle cause perse" di Slavoj Zizek il cui titolo non poteva essere più appropriato in quel frangente di grandi timori. Dalla cucina arrivavano periodicamente alle mie orecchie attente rumori di pentole, ordini decisi preceduti da un "Honey!" (di lei) e imprecazioni in inglese seguite da un "Honey!" (di lui) oltre a qualche "woff" del bretone. Poi verso mezzogiorno, del tutto inatteso, iniziò ad filtrare da sotto la porta un buon profumo di sugo al pomodoro e basilico che, vista l'ora, iniziò a procurarmi un tale languore da indurmi a bussare e a chiedere se avessero finito. Ottenuta l'autorizzazione ed aperta la porta rimasi affascinato dallo spettacolo, tanto da chiamare subito l'elfa a guardare a sua volta: per tutta la cucina erano appese delle stupende tagliatelle ad asciugare e tutto attorno regnava l'ordine e il pulito. Mio figlio che, sarà per la barba che si è fatto crescere o perché vivendo a Vienna ormai parla anche tedesco, sembrava il comandante dell' U-Boot 331 con tutto l'equipaggio schierato, ci disse orgoglioso "Non si vede San Luca attraverso la sfoglia appoggiata alla finestra, come dice la tradizione bolognese, ma solo perché non ce l'abbiamo... però si vede la casa della signora Tomaello, vi basta?". L'applauso ammirato dell'elfa e mio arrivò immediatamente (replicato al momento di assaggiare le tagliatelle, davvero eccellenti) così come l'abbraccio ai due cuochi e la consapevolezza che da quel giorno in poi in Czech Republic una graziosa sfoglina di Brno avrebbe incominciato a produrre con metodo lasagne, fettuccine e tagliatelle in quantità industriale. Che in fondo fa piacere pensare, nel nostro piccolo, di essere stati dei promotori del made in Italy...